A PROPOSITO DI FILM SULL’ARTE
di Vittorio Di Giacomo
Uno dei problemi che più da vicino assilla chi sia chiamato a realizzare un documentario
sull’arte, specie se alle prime armi, è dato dal testo di commento da associare alle immagini.Va
detto subito, tuttavia, che codesta preoccupazione del realizzatore, pure in sé rispettabile, va
oltre il fatto personale, per prefigurare una sorta di dilemma teorico-pratico, degno di essere
analizzato con cura.
Procedendo per questa via dirò allora, in base ad una pluridecennale esperienza nel campo
della documentaristica sull’arte, che a persuadermi poco o nulla in molta prassi, diffusa soprat-
tutto in campo televisivo – anche più della presenza di due distinte figure professionali: un regi-
sta non specializzato in arte e uno storico dell’arte, con il secondo in veste non di legittimo con-
sulente, ma di autore designato del futuro testo di commento, è lo sdoppiamento delle due fun-
zioni di riferimento. Entrambe indispensabili, ovviamente, e di pari dignità, ma da integrare
puntualmente
alla fonte
, mediante l’attribuzione dell’una e dell’altra funzione ad un unico sog-
getto, che sia pertanto da riconoscere come il solo ed autentico
autore del film
.
L’esperienza mostra infatti che nel realizzare un documentario sull’arte, quando a farlo è un
regista autonomo, responsabile del prodotto nella sua interezza, oppure un singolo storico del-
l’arte, versato però nel linguaggio delle immagini, le due funzioni – la visiva e la verbale –
nascendo unanimi, tali si mantengono rivelandosi dialetticamente congiunte in un nodo indis-
solubile. Al punto di non potersi neppure pensare e tanto meno fruire in modo disgiunto, se non
privandosi irrimediabilmente, non solo del senso profondo che le permea, ma anche del più ele-
mentare nesso logico.
Il leggere un’opera d’arte per interpretarla, mediante il cinema o in altro modo; il riprodur-
ne entro di sé il processo creativo è sempre, conforme a quello originario dell’artista creatore,
un processo concreto, complesso e articolato ma unitario, che non è dato suddividere nelle sue
astratte componenti. Chi potrà mai pensare di violare, infatti, il fronte integrato dato dalla
coscienza di un uomo intento a plasmare una forma, sia costui l’artista che crea, sia invece “sol-
tanto” un’interprete, impegnato con tutte le facoltà ad assimilare l’opera altrui? Chi potrà dire
ad esempio fin dove si estenda in lui la sfera emotiva, e da dove muova la sfera razionale, e a
che punto subentri allo storico e critico che confronta e classifica, il demiurgo delle immagini
che viviseziona l’artista e l’opera d’arte, per poi procedere alla sintesi finale?
Da tutto ciò discende che, quando diciamo
autore
o
regista
, non alludiamo a una figura pre-
costituita, ma alla paternità totalizzante dell’opera filmica, in cui tutte le funzioni convivono e
si integrano nel loro svolgersi. Autore o regista, dunque, indipendentemente dalle qualifiche
preventive o dalle etichette. Autore del film (nella fattispecie un film sull’arte) come si è – o
non si è – autore di un’opera letteraria: di un romanzo, di una raccolta di liriche, di un saggio
critico. Autore e non trascrittore o illustratore del pensiero altrui.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che la competenza dell’autore (del regista) non debba abbeve-
rarsi ad una o più fonti storico-critiche, remote o prossime, attinenti al soggetto e al contesto
che lo vedono impegnato nella realizzazione filmica; e a coglierne l’apporto che ne deriva. Ciò
è legittimo, anzi doveroso, evidentemente. Ma, sia detto per inciso, ad una condizione: che un
tale apporto “esterno” diventi, per intimo convincimento, cosa sua (dell’autore o regista) e sol-
tanto sua: dato personale e inalienabile di cultura, in libertà e autonomia di scelte. Scelte che,
sia chiaro, non sono soltanto di natura visiva e percettiva; e tanto meno tecnica. Infatti l’auto-
re (il regista), se pensa visivamente la realtà e visivamente esprime il proprio pensiero (le pro-
prie emozioni e convinzioni, il proprio giudizio), è chiamato a storicizzarli con attitudine criti-
ca, nell’atto stesso di calarli nella sopraggiunta realtà della comunicazione attraverso il cine-
ma.
Mutando la prospettiva non muta il concetto. Quel pensiero (visivo) da cui il film, tratto lo
spunto, desume le ragioni dello svolgimento, ancorché espresso e comunicato secondo la sua
natura, mediante le immagini, non potrà mai divergere nella sostanza dal suo equivalente ver-
bale, virtuale o effettuale che sia. La divergenza, se e quando si produca, dipenderà dal venir
meno delle naturali condizioni unitarie: dall’essere in due al posto di uno, a contendersi il
senso, il tono e la misura dell’interpretazione. Il che avviene ogni qual volta il realizzatore visi-
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