NASCITA E SPLENDORE DEL FILM SULL’ARTE
Il ventennio 1940-1960 è il periodo d’oro del film sull’arte in Europa: quello a cui rifarsi
ogni qual volta torni a baluginare la speranza di riprendere il discorso con maturata coscienza.
Fu, quello di metà Novecento, il periodo in cui parve lecito supporre – per il fervore ideativo
e produttivo che lo pervadeva – l’affermarsi non più contrastato di un genere, che avrebbe inve-
ce fatto ombra – incredibilmente – alla grande industria del film d’intrattenimento, al punto di
doverne subire la massiccia e purtroppo vittoriosa aggressività. Non tanto, tuttavia, da determi-
narne la scomparsa, ma solo il dirottamento lungo canali alternativi: seguendo i quali, il film
sull’arte non ha mancato di conseguire di tanto in tanto cospicui successi, anche se meno pre-
visti e prevedibili. Ed ora la crisi in crescita dei canali tradizionali di comunicazione, l’insor-
gere di nuove tecnologie influenti sulla distribuzione del prodotto, i promettenti segni d’insof-
ferenza in larghe quote di pubblico, non escludono, anzi potrebbero incoraggiare una ripresa
del “genere”, anche se con mutati obiettivi e con più vivace e libera capacità di trattamento.
Questi nuovi fermenti non attenuano, anzi confermano la validità di un approccio storiogra-
fico il più accurato e corretto possibile. Uno sguardo retrospettivo degno di attenzione si
appunterà, volendo, sui luoghi in cui, per ragioni di civiltà e di cultura, le speranze di un rigo-
glioso fiorire del genere “film sull’arte” si manifestarono con più fondamento: sulla Francia,
sui Paesi Bassi, sull’Italia, per cominciare.
Un primo rilievo da fare riguarda i contenuti. Mentre in Italia e in Belgio la specializzazio-
ne più trattata è quella pittorico-figurativa, in Francia, ossia nel paese da cui muove la presen-
te nota, registi e soggettisti mostrano all’epoca di prediligere la figura scolpita, nel marmo o
nella pietra, preferibilmente d’età medievale. Qualcuno obietterà che un’osservazione del
genere ha un interesse marginale, statistico. Non è precisamente così, per una serie di circo-
stanze che tenteremo di chiarire. La scelta dei cineasti francesi non fu infatti casuale, avendo
una doppia matrice, in alternativa: la matrice formale e quella che, per meglio intenderci, defi-
niremo contenutistica.
Vediamo di fare qualche esempio, riferendoci ad un evento internazionale, che lasciò di sé
tracce significative. Si tratta del Secondo Congresso Internazionale del Film sull’Arte che,
sopraggiungendo a soli due anni dal primo, che è del 1950, ne avvalorò le premesse. Il luogo
era Bruxelles, città già da allora con forte vocazione europea, nella sede prestigiosa del
Palais
des Beaux-Arts
, il
Palazzo delle Belle Arti
. A promuovere il convegno era stata la potente –
pensate un po’ –
Federazione Internazionale del Film sull’Arte
, la FIFA o FIFÀ, detto in sigla,
provvista com’era di Comitato direttivo, di Assemblea generale, di Delegazioni provenienti da
mezzo mondo: Australia, Canada, Cecoslovacchia, Danimarca, Gran Bretagna, Francia, India,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Svizzera, Unione Sovietica, e in più l’UNESCO.
La Francia, di cui stiamo parlando, annoverava nel convegno, con il presidente e il vicepresi-
dente della federazione e il segretario generale del
Bureau International
di “filmologia” – nuo-
vissima e promettentissima scienza – gli’influenti “Amici dell’Arte”.
A sua volta, l’Italia era rappresentata dal Direttore della Biennale di Venezia, Petrucci, dal
conservatore degli Archivi storici d’arte contemporanea della Biennale, Umbro Apollonio, dai
registi Emmer e Pasinetti, dal critico Vito Pandolfi e da Enrico Fulchignoni, rappresentante ita-
liano all’UNESCO. Assai vicini alla delegazione italiana, lo storico dell’arte Lionello Venturi,
e il docente di Storia del Cinema e autore egli stesso, Mario Verdone, il padre dell’attore Carlo.
Dicevamo, dunque, d’una doppia tendenza della produzione francese: formale l’una, contenu-
tistica l’altra, accomunate dalla comune predilezione del Medio Evo. A spiegarla, non era da
escludere affatto il magistero storico-artistico di Henri Focillon, medievalista e autore di
un’opera tuttora valida, uscita nel 1930 e in seguito ripubblicata con il titolo di “Vita delle
forme”, dedicata soprattutto alla scultura romanica, fondamentalmente di carattere sacro. Ed è
di preciso in tale direzione – non semplicemente supposta, ma documentata e documentabile –
che va riconosciuta la predilezione francese per l’arte plastica (scultorea), rispetto a quella che
fa, del pennello e delle tinte, come in Italia ad esempio, gli strumenti prediletti dagli storici e
dai critici, nella fattispecie cinematografici.
V. D. G
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