CineArte on line 2007 - 213 - page 459

PAESAGGI LUCANI
IL VULTURE IN AUTUNNO
Armando Lostaglio
, giornalista e uomo di cinema, presidente del
CINIT Cineforum Vittorio
De Sica di Rionero in Vulture
, nutre per la sua terra lucana un sentimento più che profondo
che spesso lo induce a trattarne con commozione lirica, sostituendo al linguaggio asettico dei
“garanti”, più o meno in buona fede, dell’ambiente e del paesaggio, una prosa espressiva e
vibrante, tendenzialmente poetica.
“Sospinti dall’odore delle cantine e dal vento che accarezza gli ulivi: alle pendici del
Vulture, fra Rapolla e Barile, fino a toccare Rionero e vedere più in là Ripacandida e Ginestra.
Lo scenario è suggestivo, è come “
scivolare fra valli fiorite / dove all’ulivo si abbraccia la
vite
”, cantava Fabrizio De André. Succede così di passare per i quartieri e riassaporare ancora
gli antichi profumi che emanano i
tini, dalle innumerevoli cantine.
La vendemmia si consuma come un
rito antico, l’odore dei tini è un po’
come quello dell’incenso che per-
mane stantio e secolare nelle chiese.
Odori di un tempo che la vendem-
mia ripropone in un territorio di
arcaica vocazione contadina, il
Vulture, terra di Aglianico (quello
D.O.C.), e poi di olio e di acque
minerali.
Un rito antico che qui affonda nelle
radici profonde del vulcano estinto, dentro la vita di tante generazioni, secoli di buon vino e di
allegrie nei quartieri di pietra che pure mascheravano disagi e povertà.
Nei mesi degli ultimi frutti e degli ultimi raccolti, il Vulture vive la sua festa più intensa.
Dall’alto della cima, dai sette dorsali che appaiono come un avvol-
toio (per i latini appunto
vultur
), l’occhio osserva quegli uomini
mesti e lieti che come formichine perpetuano la liturgia della terra,
tra le filiere di viti in distese talvolta dirupate e ulivi contorti. Da
Melfi a Rapolla a Ripacandida, e da Ginestra, l’occhio arriva fino
a Venosa; ai piedi della montagna c’è Rionero, con la sua prima
zona di San Savino. “
Qui, quando è buona annata, si miete anche
tra i sassi
” – Scriveva in un suo racconto lo scrittore rionerese
Vincenzo Buccino, che da poco ci ha lasciati – “
Questa volta l’an-
nata è buona, e che buona? È grassa, esuberante. L’uva è mosto-
sa, più turgida della pingue terra di San Savino. Il mosto è più
viscoso dell’olio delle olive della Fiumara e delle Querce
”.
Chissà in quanti ricorderanno quel
cantore del vino: Zio Michele che per
tutti era “Pastina”, questo il suo incon-
fondibile nome. Bevitore e chissà quan-
to conoscitore di vino, che gli bastavano
pochi bicchieri e riusciva a declamare
versi e versi di autorevoli poeti, lui che
era un ortolano con poca scuola alle
spalle. Da Pascoli a De Amicis, fino a Dante e Boccaccio. Nelle feste indossava lo “scullino”,
come veniva chiamato il papillon dei poveri. Riusciva ad allietare con rime estemporanee la
festa della vendemmia, il rito degli ultimi raccolti dell’anno. Un cantore, un oracolo buono,
questo era “Pastina”, sacerdote della vendemmia.
Altrove quel rito antico è ormai un concerto di tecnologie moderne, vi è grande dispendio di
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