CineArte on line 2007 - 213 - page 453

DOLORE PER LA MIA TERRA
Anche a Salerno, ora è mezzo secolo, come all'Aquila dei giorni nostri la morte giunse
repentina all'appuntamento nel pieno della notte, alle ore una e cinquantadue. Anche allora
gli orologi si fermarono, mentre
“un boato cupo, profondo, interminabile”
erompeva dalle
cavità inaccessibili dei monti insieme con la furia incoercibile delle acque. Un cronista di
prima linea, Aldo Falivena, ne fece lo straziante resoconto:
“coloro che lo hanno udito”,
sog-
giungeva
“ non lo dimenticheranno mai più. La morte scendeva con quel passo tra un dirupa-
re di frane che scuotevano l'abitato: i torrenti Rafastia e Fusandola a Salerno, Bonea a Vietri,
Regina a Maiori al rullio di tamburi sotterranei levarono dagli argini sorgendo impetuosamen-
te da un sonno di anni”
.
“Morirono abbracciati”,
intitolò Falivena la sua cronaca, come il
ragazzo aquilano che non volendo lasciare sola la sua vecchia nonna, si è avvinto a lei nello
slancio di protezione dell' istante fatale. La cronaca delle statistiche registrò 316 vittime, 350
feriti, 10.064 senza tetto, disoccupati a non finire, dei quali il 20% emigrò in America, fra
Venezuela e Stati Uniti.
Un poeta salernitano, che la sua generazione amò per la melica soavità dei suoi versi, ma
anche per lo spirito fiero che ne aveva fatto un perseguitato politico, Alfonso Gatto, volle dal-
l'esilio coatto reimmergersi nel vivo della sua terra per esprimerne l' immedicabile strazio, che
qui riproduciamo dedicandolo alle vittime di allora e a quelle di oggi.
“ Ho cercato invano di telefonare a mia madre. Il telefono si
ferma a Napoli, mi hanno detto. Migliaia di telegrammi, di pic-
coli soldati, di piccoli barbieri, di piccoli giornalisti, di piccoli
impiegati, di piccoli avventurieri - siamo tutti piccoli, vero?-
aspettano di varcare il monte delle acque. Non si passa. Da
Castellamare fino ad Amalfi, forse: ma la Sella di Chiunzi che
appena un mese fa correvo in uno dei più dolci pomeriggi di
questa mia ultima vita, non si passa. Ci sono i morti che non
aspettano più notizie, ci sono le acque, il fango, il silenzio.
Salerno è un nome, il nome del ’43, il nome dello sbarco: un
golfo, ove tanta civiltà è passata e la morte sta di casa per ren-
derle più nuova e inaspettata la vita ogni giorno. Laggiù passa-
no inverni miti quali primavere e i monti, dagli Alburni ai
Lattari, puri come Dolomiti, staccano il cielo alla soglia stessa
del mare. Ora, a Ponte Surdolo, ove si inizia la dolce campa-
gna di Castagneto, di Badia, di Rotolo, di Dupino, di Santi
Quaranta, è crollato il ponte della ferrovia che nemmeno allea-
ti e tedeschi riuscirono a colpire, e Alessia, il piccolo paese che
odorava di erbe, verde tutto dalle porte alle finestre, allinea i suoi morti nella chiesetta una volta
abitata solo da bambini. Sono nomi che gli italiani hanno imparato a conoscere questa sera, mal
scritti e storpiati nei messaggi che hanno raggiunto Milano e Roma: per me son nomi vecchi
che timidamente azzardo nel suono delle parole per sentirmeli rinascere ancora dentro, caldi
del loro silenzio e della loro pace antica. Ed è l’unico bene che resta allo straniero che non sa
più nulla della sua casa, delle sue tombe, come dieci anni fa.
Sono note, scritte in fretta in questa notte. Il giornale deve uscire e io sono nato a Salerno,
conosco Piazza Luciani e Porta Catena, quel palazzo Olivieri che dalla strada di Vietri come un
piccolo grattacielo scende al mare di via Igea: sono i luoghi del nubifragio ed erano i luoghi
dell’amore, delle prime malinconie affacciate con la testa sulle mani alla terrazza del golfo. Mi
hanno telefonato molti amici. Salerno sono io, Amalfi è Afeltra intento al
Corriere
a pensare
grandi titoli di lutto per la sua piccola repubblica. Curioso, su due piedi, investirci del perico-
lo che altri credono ancora più grande. Ci resta quasi il sospetto di non meritare il richiamo e
l’allarme, interrotto da questa parentesi di silenzio al di là della quale i vivi abituati a resistere
alla guerra, al saccheggio, alla fame, ai negri, vivono ora in compagnia del nubifragio. È una
pazienza che non avemmo il tempo di soffrire che non volemmo soffrire, forse, fuggendo 20
anni fa a cercare fortuna e che solo nostra madre rispecchia nel suo volto, calma fino al sorri-
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Alfonso Gatto
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