IL MUSEO DINAMICO DELLA TRIENNALE
Se il
design
nel senso diffuso del termine è anch’esso come riteniamo arte creativa, fondata su
di un’idea del bello e dell’originale, benché funzionale rispetto all’oggetto utile (un tempo si
parlava di arti decorative o applicate); e se è vero che tutta l’arte è nuova nelle sue singole
manifestazioni, pur conservando la propria essenza, portatrice della memoria del mondo e del-
l’umano – una memoria tramata di nostalgia e profezia – ecco rinnovarsi anche per il
design
l’alterna vicenda dell’arte di sempre che, svolgendosi nel tempo e avendone assunto i segni
entro di sé, è votata tuttavia a sottrarsi alla caducità temporale: tesa com’è a dilatarsi e a dura-
re oltre lo scatto delle ore e dei giorni, in un presente continuo ed indiviso, il “presente” di tutti
i tempi, come scriveva il poeta Mario Luzi.
Tutto ciò spiega l’apparente contraddizione o, se preferite, il paradosso realizzato ai nostri gior-
ni dalla gloriosa
“Triennale”
milanese (oggi fondazione) che, non paga dei suoi attrezzati
archivi, propone e allestisce un museo (sic!), ossia un deposito di oggetti consegnati alla storia
ma che, proiettato dinamicamente in avanti, è destinato in breve ad essere se stesso ed altro da
sé, antico e futuribile. La sorpresa è tuttavia destinata a scemare, se si riflette che rispetto al
passato non è tanto il fenomeno in sé, a cambiare, bensì il vocabolario, con quanto esso com-
porta per la comprensione della realtà. Si tratta soltanto infatti di un mutare d’accenti nel
tempo; e di sostituire alla parola “durata”, nella quale aleggia una nostalgia di eterno, il termi-
ne “flusso”, dominato dal senso del divenire. La sottostante realtà rimarrà sempre la stessa,
mutando soltanto il nostro punto di vista mentale.
Quel che tuttavia più da vicino preme a noi di
CineArte on line
è che, per dar luogo all’opera-
zione culturale connessa ai termini citati, gli ideatori del
Museo Dinamico della Triennale
abbiano pensato una volta di più di ricorrere al linguaggio del cinema. Ed è così che, per ispi-
razione dell’estroso regista britannico Peter Greenaway, sono stati investiti sette autori cinema-
tografici, ciascuno con il compito di dar vita ad un cortometraggio. Con il decano Ermanno
Olmi, ecco allora mobilitati Silvio Soldini, Davide Ferrario, Daniele Lucchetti, Antonio
Capuano, Pappi Corsicato e Mario Martone con la responsabilità di dar vita, ciascuno, alle
tappe del viaggio che il
design
(fin da prima di chiamarsi così) è andato compiendo, dall’epo-
ca paleocristiana, bizantina e romana, per giungere ai tempi a noi più vicini. E se Mario
Martone è stato chiamato a trattare il tema del teatro animista, tocca ad Olmi il tentativo di rin-
tracciare gli archetipi del
design
italiano, intesi come elementi di un alfabeto elementare. A loro
volta, Capuano s’intratterrà sulla presenza vitale della luce in un contesto di ombre e penom-
bre; e Davide Ferrario dovrà vedersela più direttamente con la nozione di dinamicità , così
come essa è giunta a noi attraverso il lascito futurista. A Corsicato, a Lucchetti e a Silvio
Soldini spetterà infine il compito di affrontare rispettivamente: la pratica del super-confort ere-
ditato dal
new deal
americano degli anni Trenta; l’ossessione democratica, inquadrata nei ter-
mini della lingua del cinema; e per finire l’argomento dei grandi borghesi ossia la sacralità del
lusso.
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