IL VISIBILE NELL’ INVISIBILITÀ
di Martina Bonichi
Quando Gilles Jacob, per la sessantesima edizione del Festival di Cannes, nel maggio del
2007, invitò più di trenta registi tra i più famosi al mondo a partecipare ad un film collettivo,
scelse come tema il luogo in cui il cinema si mette in scena: la sala cinematografica.
Chacun son cinéma
, il film che ne prese vita, composto di 33 cortometraggi provenienti da
tutto il mondo, pone in atto una riflessione sullo spettatore cinematografico, sulle sue sugge-
stioni e sulle diverse modalità di partecipazione e di immedesimazione di fronte ad una storia
raccontata per immagini.
Registi del calibro di Angelopoulos, Lelouch, Kitano, von Trier, Polanski (accanto alle figu-
re emergenti di Assayas, Iñárritu ed Egoyan) mettono in scena oltre che se stessi – rievocando
brevi, fortuiti momenti che li hanno visti come spettatori – ricorrenti suggestioni: l’attesa e
le aspettative di fronte ad un cinema, la figura del regista come primo spettatore, la sala come
paradossale e incredibile contenitore di figure fantastiche, l’abbandono messo in atto dallo
spettatore di fronte ad uno schermo ed, in ultimo, una particolarissima e paradossale certezza:
la cecità dello spettatore come condizione ideale per raggiungere una completa visione e un’in-
tima comprensione di un film.
Interrogandosi sul senso del visibile i registi Chen Kaige, Raul Ruiz, Walter Salles e
Alejandro Iñarritu danno vita, attraverso i loro piccoli film, ad una profonda analisi sull’ ambi-
gua natura delle immagini, su una loro presunta invisibilità, sia che esse si sottraggano alla
vista (nel
fuori campo
), sia che si rivelino attraverso la propria assenza, o che trattino dell’im-
possibilità di vedere da parte dello spettatore.
Così una profonda riflessione sul tema dello sguardo porta i registi a considerare il tema del
visibile situato in uno spazio altro: un oltre l’immagine, oltre la sua visibilità.
In questo
oltre,
situato nello spazio del realizzabile e del filmabile, in cui risiede l’invisibi-
lità, si apre la presenza di un possibile, sollecitata attraverso l’immaginazione, proprio dall’as-
senza di qualcosa.
Ed è in questo altro spazio del visibile che, in particolare, il regista cileno Ruiz pone il suo
spettatore e protagonista: un cieco seduto nella sala di un cinema scelta come propria dimora,
riceve il dono della cecità, così da accedere ad un piano del visibile che permette di trasforma-
re i ricordi in spettacoli visivi riflettenti sullo schermo.
La cecità, come rapimento di fronte allo spettacolo cinematografico, come percezione pura
e come condizione ideale per raggiungere il visibile nell’invisibilità, è descritta dal regista
Chen Kaige, là dove, attraverso una piena figurazione dell’immagine – suggerendo l’impres-
sione di un viaggio commovente e perfino estatico – un bambino cieco comprende l’intima
essenza del cinema.
Oltre l’invisibilità delle immagini appare dunque un universo del possibile e il cinema
(negandosi e al tempo stesso offrendosi attraverso un film) si esibisce nella propria presenza-
assenza, dando luogo ad una percezione e comprensione globale.
Nel cortometraggio, il più applaudito, del regista brasiliano
Salles,
è la distanza rispetto alla
Croisette
francese che rende ciechi i due cantanti improvvisati; e questi, privati del dono dello
sguardo, vi accedono comunque attraverso l’immagine che arriva loro da Internet.
Ma è in
Anna
, del messicano Iñarritu, il film in cui la cecità diventa quasi emblema della
perfezione: una spettatrice cieca sembra essere l’unica ad accedere ad un piano del visibile tale,
da permetterle non solo di vedere il film, ma di colmarne i vuoti in mezzo ad un pubblico
“vedente”: vuoti amplificati dal film di Godard,
Le Mépris
, proiettato in sala.
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