LA CITTÀ PER L’UOMO
I
– La città per l’uomo o l’uomo per la città?
La figura solitaria che procede, stretta in sé, in uno spazio troppo vasto per essere suo, non ha
termini di confronto né punti d’appoggio: il marciapiede rettilineo ha l’esilità di un ponte di
fortuna sospeso sul vuoto.
II
–
All’estremo opposto, uomini il cui orizzonte non va oltre la scatola metallica che li racchiude.
Perfino gli animali hanno bisogno di spazio vitale. In mancanza, degenerano e intristiscono.
III
– Due immagini, due simboli. Ma anche due ipotesi, tra le infinite possibili, per configura-
re il rapporto tra l’uomo e la città. La città è come una immane scultura, nei cui spazi interni
l’uomo penetra e si addentra, creando di momento in momento la quarta dimensione dello spa-
zio-tempo: cioè la percezione dello spazio, in ragione del movimento, del ritmo, dei punti di
vista sempre nuovi di chi va e guarda.
Ma, in realtà, non esistono spazi puri. Nella percezione dello spazio entrano sempre in gioco i
volumi e le superfici che lo determinano, con tutte le loro caratteristiche di forma, materia,
luce, colore. Insomma, la scena urbana nel suo complesso, con gli uomini e le cose che la popo-
lano, come – tra quinte e fondali – attori ed arredi occupano la scena di un teatro.
IV
– Ci sono spazi senza significato: casuali nella loro misura eccessiva, priva di autentico rap-
porto tra i vari elementi.
Da opposte sponde ci si guarda stupiti, più spesso indifferenti, dell’esserci reciproco.
E spazi degradati da funzioni improprie, in cui l’arredo massiccio, da accessorio diventa prin-
cipale.
La ferita è più sensibile se quel certo spazio era nato con la nobile vocazione all’incontro tra
gli uomini.
E infine ci sono spazi (e volumi), nati come monumenti, a cui è venuta meno la tensione che
sembrò ispirarli: retorici, vuoti di idea. Al loro cospetto, l’individuo è indotto a stringersi, ad
appiattirsi contro una qualsiasi massa muraria, fino ad annullarsi.
V
–
All’opposto, basta così poco: un marciapiede, un lampione a sbalzo, una balaustra traforata,
ma ricondotti all’unità del quadro, per ricreare come in un incanto la scala umana, che sembra-
va perduta.
VI
– La grave compattezza di un fronte continuo di edifici opprime uno spazio che pure, misu-
rato col metro, sembrava fatto per il respiro ampio, sicuro.
Tuttavia non bastano i volumi in sé, pure nel loro nobile assetto, per creare spazio urbano.
Manca il dialogo tra le parti, difettano le corrispondenze. E tanto spazio è uguale a nessuno spa-
zio.
VII
– Soltanto l’arte assoluta vince ogni peso: allora non è più questione di proporzioni su base
matematica, laddove il ritmo creativo regni sovrano, modellando lo spazio a sua immagine e
somiglianza.
VIII
– Le dimensioni modeste, ma ancor più il rapporto in scala, la coerenza delle tinte, la con-
tinuità tonale fanno sì che le strade riacquistino tutto il valore originario, la vocazione di luogo
fatto per la gente.
IX
– Un profilo mosso, frastagliato, non incide soltanto il cielo, ma il cuore dell’uomo, che si
sente portato, forse senza averne coscienza, ad una maggiore vivacità.
Ma una linea retta orizzontale contro il cielo è una sbarra anche per i suoi sogni.
X
– Un buon pavimento serve a collegare le pareti e valorizza gli oggetti che vi sono colloca-
ti. Di più: una pavimentazione geniale trasfigura lo spazio, come nella piazza del Campidoglio
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