Sinai, eretto contro uno sfondo di rocce a scaglioni, illuminate di luci bianche. Un motivo che
sarà accolto dalla pittura medievale al tempo di Cimabue e del Giotto giovane.
Pari suggestione hanno le rocce, al cui piede sgorgano le acque dell'annunzio evangelico. Più
sommari tratti hanno invece le figure e gli emblemi degli Evangelisti, chiusi entro gli alti riqua-
dri fiancheggianti le trifore del matroneo. Sono, su questa parete di sinistra, Giovanni e Luca.
Mirabile il senso compositivo, benché elementare. Tanto da farne, agli occhi degli artisti che
verranno, un modello.
Stesso linguaggio e stile, ispirati all’arte tardo-antica: speculare, rispetto alla precedente, per
contenuti narrativi, didascalici e dottrinali, la parete di destra propone ai fedeli – con gli
Evangelisti, il Mosè e il profeta Isaia – l’offerta di Abele e Melchisedec, a fare da riscontro alle
Storie di Abramo.
Tra il presbiterio e l’abside
Coevo è l’altare, forse non originario della chiesa. Non può dirsi lo stesso, per l’età, dei pan-
nelli del sedile; oppure – alle spalle del trono – delle splendide tarsie marmoree dell’abside,
addirittura novecentesche. Ma la libertà di fare non impedì agli artisti moderni di essere fede-
li allo spirito di San Vitale.
Il discorso vale anche per altre, singole parti della zona inferiore.
Riparando ai guasti del tempo, si preferì, al rigore scientifico di una disadorna restituzione filo-
logica, la creazione di un’atmosfera esteticamente ineccepibile e nella sostanza rispettosa –
come avviene per le non dissonanti integrazioni moderne delle finestre – ; alternando così la
memoria o l’apparenza dell’antico con la sua reale sopravvivenza.
La conca dell’abside
Nella conca dell’abside, la visione diretta del mistero di Dio. Nelle sembianze giovanili
dell’Emmanuele, del «Dio con noi», Cristo si libra sulla sfera celeste che simboleggia il crea-
to; ed è esso stesso manifestazione di Dio: teofania. Strie di nubi sul fondo dell’oro; ondicelle
simboliche di rivoli azzurri; fragile grazia di fiori candidi e creature minute e variopinte tra-
pungono, in un profumo di paradiso, il tessuto del mosaico. Nel quale culmina, in coerenza di
significati se non di linguaggi storici, il programma iconografico di San Vitale: specchio e sin-
tesi del progetto divino di salvezza.
In tale sfavillio si inserisce – personaggio di una storia terrena le cui ragioni sono scritte in ciclo
– il santo martire Vitale, che il Cristo incorona all’uso greco in segno di distinzione somma. Ed
è privilegio che si conferma, formalmente, nella qualità del tessuto pittorico della veste del
santo.
Nell’opposta curva dell’abside figura il vescovo Ecclesio: colui che da Bisanzio trasse, e a
Ravenna trasferì, l’idea di edificare la chiesa.
Il mosaico di Giustiniano
Sotto lo sguardo del Cristo si manifesta anche, in San Vitale (recando il pane dell’Eucarestia),
l’imperatore d’Oriente Giustiniano, regnante a Bisanzio nell’anno della consacrazione della
chiesa.
Ci si domanda se questa sia l’evocazione di un fatto storico. Ma Giustiniano non fu mai a
Ravenna. Occorre intendere, allora, che cosa fosse in sé il dispotismo imperiale bizantino. E
che parte vi avesse l’arte, nel creare un clima sovrumano, nel quale la sfera mistica e l’alone
del potere politico si confondono.
La «presenza» di Giustiniano in San Vitale prescinde dalla storia. La sua chiave è nella forma
della rappresentazione. Sta soprattutto nella frontalità dell’ immagine, che è mezzo per intimi-
dire i sudditi, oltre che per esprimere la reverenza all’autorità del personaggio raffigurato. E
quando questi sia l’imperatore stesso, il mosaico diviene lo specchio nel quale l’onnipresente
sovrano riflette la propria maestà.
Il mosaico di Teodora
Simmetrica è la scena che raffigura l’imperatrice Teodora mentre reca a San Vitale il vino
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