CineArte on line 2007 - 213 - page 494

sistema rappresentano anche un “pericolo” per il restauro: si può manipolare con grande
ampiezza un suono od un’immagine, fino a renderli perfettamente “puliti” da un punto di vista
tecnico, ma stravolgendo completamente il carattere “primitivo” di immagini e suoni prodotti
in un certo tempo con una tecnologia imperfetta.
NOTE TECNICHE SUL RESTAURO
DEL CINEMA
Il supporto impiegato dagli inizi fino ai primi
anni ’50 è il
nitrato di cellulosa
o
celluloide
,
altamente infiammabile, poco stabile chimica-
mente e soggetto a variazioni dimensionali. La prima “pellicola di sicurezza” fu il
diacetato di
cellulosa
, già utilizzata in qualche caso nell’era del cinema muto e praticamente non infiam-
mabile. Ma la pellicola di sicurezza più usata dagli anni ’50 in poi è stata il
triacetato di cellu-
losa
, non infiammabile e molto più stabile del nitrato, anche se ancora soggetta a fenomeni di
restringimento e alla cosiddetta “sindrome dell’aceto” (
vinegar syndrome
) che rende il suppor-
to pericolosamente fragile per via della perdita di un componente, l’acido acetico (da qui l’odo-
re caratteristico e il nome). Oggi viene impiegato sempre più frequentemente il
poliestere
(
Polietilentereftalato – PET
), una resina prodotta nel 1941 per la produzione di fibre tessili, poi
utilizzata nella fabbricazione delle pellicole, estremamente stabile e resistente ai graffi e alla
trazione.
I formati del cinema
Nell’arco di oltre cento anni, le tecnologie usate e i tipi di pellicola impiegati in ripresa sono
andati continuamente mutando. Se oggi i formati professionali più comuni sono il 35mm e il
16mm, nel corso degli anni si sono avvicendati i formati più svariati e diversi e solo dal 1924
si è raggiunto uno standard nella produzione delle pellicole da cinema. In passato le varie case
cinematografiche produttrici di pellicola si erano sbizzarrite nei formati più vari: l’
American
Biograph
(1895) da 70mm o il
Veriscope
(1897) su pellicola da 63mm; tra i formati semi-pro-
fessionali, grande fortuna hanno avuto il 28mm
Pathé KOK
(1913); il 17,5mm, ottenuto
tagliando a metà una pellicola 35mm; il
Pathé Baby
da 9,5mm con una perforazione centrale,
introdotto nel 1922 e soppiantato soltanto dal popolare 8mm della Kodak, anch’esso ottenuto
tagliando a metà una pellicola 16mm; lanciato nel 1932, l’8mm è divenuto dagli anni ’50 pra-
ticamente l’esclusivo formato del cinema “familiare” – anche nella variante Super 8 - , fino
all’avvento del “video”.
Il cinema a colori
La nostra percezione di un cinema muto sostanzialmente in bianco e nero è errata, in quanto
già dagli inizi si era tentata la riproduzione naturale del colore; non disponendo di materiali
sensibili al colore, venivano colorati i positivi, inizialmente a mano con un pennellino, foto-
gramma per fotogramma, poi col sistema del
pochoir
, in voga dalla nascita del cinema fino al
1930 circa. Il
pochoir
consisteva nella stesura del colore per contatto attraverso una matrice tra-
sparente ottenuta ritagliando a mano da una copia positiva, poi lavata dalla gelatina, le sagome
degli oggetti da colorare. Per ogni colore veniva quindi approntata una matrice diversa.
Altri sistemi per conferire una colorazione generale ad una scena erano l’
imbibizione
e il
virag-
gio
. L’avvento della pellicola a colori moderna si colloca intorno agli anni ’50 ad opera della
Kodak (Eastmancolor)
; essa è costituita da tre strati di emulsione, ognuno sensibile ad uno dei
tre colori primari blu, rosso, verde. Dopo lo sviluppo, sullo strato corrispondente si forma
un’immagine del colore complementare; la somma delle tre immagini produce un’immagine a
colori. Purtroppo questa tecnologia rende la pellicola a colori molto più instabile e deperibile
del vecchio nitrato in bianco e nero e la sua conservazione, già a distanza di una diecina d’an-
ni, può essere problematica.
Massimo Becattini
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