rale. Parlare e ingannare, oggi, sono quasi sinonimi
. Le cose, da allora, non sembrano gran-
ché cambiate, anche se nei seminari organizzati per gli aspiranti giornalisti amiamo dir loro,
giudiziosamente, che un conto è informare, un altro è comunicare: nel primo caso passano dei
dati, delle notizie, nel secondo si mettono in comune dei contenuti, si lanciano dei messaggi,
si difendono dei valori. Se informi, parli
con un altro
; se comunichi, parli
per un altro
. Ciò
implica il dover usare la parola in base a quanto si è convenuto non solo di dover sapere, ma
anche di voler capire. Battersi per le regole, in definitiva, è un compito tra quelli primari del
comunicare. E un giornalismo disposto a interpretarlo diventa strumento garante della qualità
politica, altrimenti può essere solo complice dei suoi scadimenti.
C’è chi risolverebbe alla svelta il problema: gli basterebbe ridurre la politica al minimo,
opponendole diffidenza e disinteresse; mentre lo scopo degli strumenti comunicativi, e il crite-
rio con cui governarli, non possono essere immaginati al di fuori della politica, cioè dell’unica
possibilità civile di ricercare e trovare soluzioni, ordinarie e ordinatrici, ai problemi che inve-
stono una società e una nazione. Per questo, si sente dire nei convegni, il giornalismo non potrà
rinunciare a essere un controllore sistematico, esigente e severo di qualunque realtà palese e
occulta. Ma anche un moderatore dell’incontinenza partitica, dei suoi cipigli e dei suoi “teatri-
ni”. Non consegnatevi alla piccola-grande truffa del qualunquismo per distrarvi dalla politica
e consegnare le vostre rabbie e le vostre speranze a quell’unica possibilità sopravvissuta alla
pandemia. Non avreste più la pletora degli schieramenti, ne rimarrebbe uno soltanto, per il
quale potreste anche non schierarvi perché sareste già ingaggiati, iscritti, timbrati, tatuati dal
solo potere rimasto: il partito unico. Domani sarete ciò che pensate e fate oggi, non lasciatevi
sfuggire un futuro che ha le radici qui, in ogni momento, anche in questo stesso, che va già
generando ciò che diventerete. Ciò che si vive è per il dopo, un uomo è un uomo per il suo
avvenire. Aprite bene gli occhi, guardatevi intorno: siete ciò per cui vive l’ostinato ottimismo
della natura.
Sebbene sappia quanti di voi vivano la loro giovinezza senza negarla con il pretesto delle
sue difficoltà, anzi, impegnandosi in mille modi per superarle, vedo ovunque che questa parte
volenterosa spesso non ha maggior fortuna dell’altra che si consegna al luogo comune dell’
“esser giovani”, intendendo che le si deve, per ciò stesso, indulgenza e impunità; lasciando
libero ciascuno di vivere i suoi fragili disincanti, i suoi ingannevoli giudizi, le sue effimere
ripulse.
Sarebbe tutto comprensibile se la dimensione individuale dello scontento si traducesse in
una maggiore consapevolezza dei diritti personali, nella crescente esigenza di nuovi spazi per
l’autodeterminazione, in una richiesta di giustizia, di benessere, di felicità mai avanzata in
almeno cinquant’anni di culture, per così dire, massificanti; se, insomma, il recupero dei valo-
ri privati – che la visione dogmatica di un primato del collettivo pretendeva di avere scredita-
to per sempre – fosse l’inizio di una lettura più laica, pragmatica, irrituale della politica. Così
non è, se non molto di rado. Un prezzo da pagare alla fine dell’ideologia, è stato detto, potreb-
be essere la fine anche della politica e della storia, e questa è una doppia balordaggine; mi tengo
soltanto alla politica, e non saprei immaginare, se non evocando tempi e vicende terribili, il
prezzo da pagare a una sua definitiva sconfitta. Teniamocela, dunque, e pratichiamola; non ce
n’è mai tanto bisogno come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle.
Di questi che stiamo vivendo un giorno si potrà dire che furono gli anni in cui la politica
perse i giovani. Resta poco tempo, in genere, tra generazioni per ricomporre un equilibrio com-
promesso da una serie di errori gravi: anzitutto quello di avere lasciato crescere il disamore per
la comunità, cioè per il mettere in comune la parte pubblica della nostra vita.
Colpisce ancora ciò che scrisse Mario Luzi:
I giovani non hanno ancora messo radici pro-
fonde. Sono esposti alla tempesta più degli adulti. La loro tempesta è una domanda di vita non
soddisfatta; il disinganno e la disperazione imperversano trovando minore resistenza.
Quando
si allarmano i poeti è tempo di temere. Il disinteresse dei giovani per la cosa pubblica rischia
di privare la società, e insieme la democrazia, di un’energia essenziale. Anche Adorno si era
pronunciato su questo pericolo:
Attenti, potreste perderla! La gioventù è organizzata e ammi-
nistrata dagli adulti secondo criteri di natura sostanzialmente econometrica, cioè secondo la
logica del mercato
.
Il risultato è l’aver prodotto il disinteresse, l’ignoranza, la rivalsa. Ma intanto, questi ragaz-
zi dell’Occidente, compresi quelli di casa nostra, che non comprano i giornali perché, dicono,
“parlano di noi solo per la droga, per il sabato sera e per la violenza negli stadi”; questi ragaz-
zi secondo i quali Tien An Men è un profumo per uomo; che svenano i genitori con il cellula-
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