re e si irritano se vuoi sapere dove sono e cosa fanno; questi ragazzi con le mutande griffate,
ma che non firmano un appello contro la mafia; che alla domanda quanto durò il fascismo
rispondono “una decina d’anni”, cosa furono Hiroshima e Nagasaki azzardano “due motoci-
clette da corsa” e se chiedi chi era De Gasperi dicono “un cardinale”; questi ragazzi che mi fa
male non capire, ma sembrano galleggiare in un’idea astratta del mondo, guardano
Blob
cre-
dendolo una comica del regime, giudicano la politica un “perditempo o un affare”, ignari di
farne parte, sia pure con le idee che hanno in testa: quelle nelle quali li lasciamo. Confronto
tutto ciò con il sentimento del bene comune da difendere, della dignità da provare, della patria,
che non si nominano più perché è una parola retorica, e in fin dei conti un luogo comune,
meglio sostituirla con “territorio”, una realtà che hai sotto i piedi, magari abbandonata alle allu-
vioni, agli smottamenti, alle frane – e persino ai crolli dei più grandi monumenti dell’umanità.
Eppure c’è una parola, speranza, che oggi ha preso un suono meno astratto proprio nell’am-
bito delle conquiste concrete. Citerò per primo un grande santo, il più laico – azzardo a dire –
che in questa materia io conosca: Agostino. Egli dice:
Da due tentazioni dobbiamo ugualmen-
te guardarci, dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento
. Per conclu-
dere, da un altro versante, con questo speculare, bellissimo invito di Elias Canetti:
Certe spe-
ranze, quelle pure, quelle che nutriamo non solo per noi stessi, quelle il cui adempimento non
deve tornare solo al nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, che
procedono dalla bontà innata della natura umana, queste speranze di un giallo solare bisogna
nutrirle, proteggerle, ammirarle, quand’anche non dovessimo vedere il giorno in cui si com-
piano, perché nessun impegno è altrettanto sacro e da nessun altro inganno dipende, a tal
punto, la nostra possibilità di non finire sconfitti
.
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