CineArte on line 2007 - 213 - page 90

L’OCCHIO, L’ORECCHIO E LA TV
(seconda parte)
di Vittorio Di Giacomo
Ricollegandoci a quanto detto nella prima parte di questo testo (vedi), credo sia ormai chia-
ra a tutti la improponibilità – a proposito di messaggi audiovisivi complessi – di un qualunque
giudizio manicheo che ravvisi tutto il bene nella parola, e nell’immagine in quanto tale, tutto
il male,
sic et simpliciter.
Con il che non si nega che nel modello corrente di messaggio audio-
visivo affermatosi universalmente, la parola sia ridotta ad un ben misero simulacro di se stes-
sa. Il fatto è, tuttavia, che ciò non avviene
per colpa
dell’immagine (di cui si è prima intravi-
sta la virtuale ricchezza non solo fantastica ma anche concettuale) bensì a motivo, se mai, della
squilibrata strutturazione di un messaggio nel quale le due componenti, la parola e l’immagi-
ne, appaiono nella migliore ipotesi giustapposte a caso e non fuse. E nel quale, astrattamente
scissa dal contesto, l’immagine di per sé appare depotenziata e vilipesa: declassata com’è, dal
rango di struttura simbolica significante a mero stimolo sensorio, con funzioni riempitive ed
effetti stranianti.
È tutta
la comunicazione ad apparire decaduta, quali che siano il genere e la composizio-
ne strutturale del messaggio. Ma un discorso esaustivo che volesse anche solo prospettarne le
ragioni possibili o probabili ci porterebbe lontano. Giacché, ad esserne implicati, sarebbero fat-
tori molteplici e di natura complessa: etici, politici, culturali oltre che, ovviamente tecnologi-
ci. Ciò nonostante cercherò di mettere a fuoco qualcuno almeno tra i più macroscopici, di code-
sti fattori d’inquinamento della comunicazione. Della comunicazione intesa come il grande
alveo in cui scorre il fiume delle idee e della loro rappresentazione simbolica; della loro espres-
sione e trasposizione; della loro oggettiva e
soggettiva trasmissibilità. In breve, il fiume del
linguaggio umano: l’astratto e il concreto.
Ebbene, per assurdo che sia, noi stiamo assi-
stendo, in un clima di fatalità assai raramente
contestato, al “suicidio” della comunicazione,
così come essa si è venuta agghindando in
vesti sontuosamente tecnologiche. In che
senso? Nel senso ch’essa veicola sempre di
più, non il suo oggetto ovvio e naturale – ossia
la realtà – bensì la sua puntuale contraffazio-
ne. In altri termini: un suo
doppio
che, simu-
landola, ne distorce e travisa lo statuto fonda-
mentale.
Se voleva essere un clone, si tratta di un clone riuscito male. Ma non è un clone: è una sofi-
sticazione truffaldina. Il rischio è quello di una ulteriore alienazione dell’autenticità, di propor-
zioni planetarie e dalle conseguenze imprevedibili.
Il processo di trasformazione del senso della realtà, complesso ma rapido – a prescindere
dalle esperienze volontarie di carattere ludico – è stato ed è tuttavia lineare nella sua progres-
sività. Posto a fronte del messaggio audiovisivo ad alta tecnologia, ai suoi ritmi accelerati,
imposti dalle leggi del mercato pubblicitario e del profitto – complici la moda e un’estetica
ad
hoc
, influente sulla psiche – l’uomo-massa, sommerso dal profluvio dei messaggi, si è trovato
senza accorgersene nella condizione coatta di non potere in alcun modo disporre dell’agio men-
tale necessario ad un minimo di riflessione chiara e distinta, di contemplazione riposata e sere-
na. Di fronte a questo, che continua ad apparire come un semplice dato, si è prodotto e si pro-
duce un imprevisto fenomeno come avveniva per le apparizioni dei primitivi, vissute sovente
in sogno o in stato di possessione. Avviene che, nel consumatore passivo di messaggi audiovi-
sivi (così come essi sono, oggidì, confezionati e trasmessi), si rendano labili e indistinguibili
tra di loro il dentro e il fuori, il pensato e l’agito, il soggetto e l’oggetto. Il virtuale, termine
ambiguo con cui si designa oggi, indifferentemente, il fantastico, l’immaginario, il fittizio, il
simulato (piuttosto che il potenziale, secondo la corretta terminologia), vi assume connotati se
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