non reali, realistici, anzi iperrealistici. Di un iperrealismo che è sempre di più, in forza della
sofisticazione tecnologica, di pertinenza dello spettacolo, inteso come genere e come catego-
ria. E non solo nella comunicazione televisiva, ma anche in quella irradiata in rete può accade-
re, accade, che simulazione e realtà (ciò che resta della realtà nel costume dilagante della clo-
nazione tecnologica) si scambino – nella manchevole distinzione delle fonti – i rispettivi ruoli
originari. A soffrirne, stravolti, sono i contenuti e le forme della coscienza individuale. Si assi-
ste in genere ad una sorta di regressione allo stato infantile, più o meno pronunciata, di arresto
accidentale dei normali processi d’individuazione dell’Io nei confronti dell’Altro, quasi che la
fonte emittente (TV o PC) operi anzicché come specchio garante del reale, come fonte di ambi-
guità, dissolutrice dell’autentica esperienza di sé.
A questo proposito, mi piace trascrivere una pagina del francese Jean Baudrillard (tratta dal
saggio “Le crime parfait” editions Galilèe, Paris 1995). Con stile immaginoso, impietosamen-
te ironico, Baudrillard scriveva:
Vivete la vostra vita in tempo reale – vivete e soffrite diretta-
mente sullo schermo. Pensate in tempo reale – il vostro pensiero è immediatamente codificato
dal computer. Fate le vostre rivoluzioni in tempo reale – non in strada, ma nello studio di regi-
strazione. Vivete la vostra passione amorosa in tempo reale – col video incorporato per tutto
il tempo del suo svolgimento. Penetrate il vostro corpo in tempo reale – video endoscopia, il
flusso del vostro sangue, le vostre viscere, come se vi trovaste lì
.
Nulla sfugge. C’è sempre una cinepresa nascosta da qualche parte. Si può essere filmati
senza saperlo. Si può essere chiamati a rieseguire tutto davanti a qualsiasi canale televisivo.
Si crede di esistere in versione originale, senza sapere che questa non è nient’altro che un caso
particolare di replica…si è in balia di una ritrasmissione istantanea di tutti i fatti e di tutti i
gesti su un canale qualunque. Un tempo lo avremmo vissuto come un controllo poliziesco. Oggi
lo viviamo come una promozione pubblicitaria
.
Un caso è stato al suo momento sotto gli occhi di tutti:
la cronaca di due fra i conflitti che hanno visto impe-
gnati in stretta successione gli Stati Uniti e i loro allea-
ti, rispettivamente contro Saddam Hussein e contro
Milosevic.Cronaca paradigmaticamente televisiva, lon-
tana anni luce dalle oneste corrispondenze di guerra dei
giornalisti del tempo che fu. Ridotto a puro spettacolo,
monotono e con poche programmate varianti, il conflit-
to iracheno si connotò per un senso dominante di
illu-
sorietà e improbabilità
. Tanto da apparire addirittura
irreale. Irreali i caduti, irreali le distruzioni. Forse sol-
tanto un giuoco ritualizzato? O, piuttosto, una messa in
scena per la TV?
A sua volta il resoconto del conflitto balcanico venne
configurandosi, attraverso gli schermi televisivi, come
una sorta di evento paradossale, da “santa guerra”, inti-
mamente contraddittorio: nei mezzi, nei fini, nei modi, nei significati. Come per un vuoto,
impensabile, di regia: con interpreti esclusi aprioristicamente dal testo del copione.
Un caso limite fu quello registrato a bordo della portaerei statunitense “Roosevelt”, nella
quale, dai 3.000 televisori in funzione giorno e notte furono ammannite ai 5.000 tra marinai e
serventi, frammiste, le sequenze “reali” ma anodine della CNN e quelle, ben altrimenti incisi-
ve e iperreali del film
Top Gun
, con l’attore Tom Cruise impegnato a sfrecciare con il suo jet
sul video. A detta del
Washington Post
, autorevole e anticonformista giornale americano, erano
stato codesti, per gli ospiti della “Roosevelt”, i soli momenti eroici di un conflitto tecnologica-
mente impeccabile, vissuto nella improbabilità di una pesante alienazione.
( Il seguito e la fine al prossimo numero )
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