ma un pensiero non può esprimersi in se stesso, senza incarnarsi in quel sistema di segni pla-
stici che fanno dello spazio e della durata cinematografici le articolazioni della meditazione
dell’autore
7
.
Il cinema come opera d’arte, fa dell’immagine un mezzo non di rappresentazione ma di tra-
sfigurazione. Su questo tema le riflessioni del critico Henri Agel si rivelano particolarmente
preziose. Interrogandosi a proposito dello statuto dell’immagine sulla base delle analisi di
Jung, Elide e Ricoeur, egli traccia un percorso preciso
8
. Partendo dalla opacità apparente del-
l’immagine (che immediatamente attrae a sé sguardo e attenzione), bisogna giungere a ricono-
scere la sua più grande trasparenza e permeabilità, la sua predisposizione a dire altro rispetto a
ciò che è mostrato. Per Agel tutti i grandi film, indistintamente, propongono allo spettatore que-
sto percorso, senza il quale non c’è arte. L’immagine, svincolata dalla rugosità opaca dell’og-
getto, «
esiste al di là di se stessa e si spiritualizza in una fuga indefinita verso le profondità
»
9.
Il critico francese riconosce che il suo approccio è più prossimo ad una tradizione poetico-ini-
ziatica che a una prospettiva razionalista. La dialettica che lo oppone a Bazin su questo punto,
ci sembra fondamentale per comprendere le possibilità del cinema in contesto religioso. Ma
torneremo su questo punto centrale della nostra ricerca.
Lo schermo cinematografico diventa
per Agel una superficie magica, che
apre porte e finestre all’immaginazione
dello spettatore. L’immagine è segno,
ma segno «
vivente, armonioso e mute-
vole
»
10
, tutto l’opposto di un sistema
rigoroso di simboli. Il simbolo infatti è
richiamo ad una conoscenza anterior-
mente acquisita e dunque a un processo
intellettuale, mentre l’immagine cine-
matografica agisce sullo spettatore
senza passare per questo tipo di opera-
zione mentale. Essa innesca piuttosto
una sorta di «
flusso di coscienza, in cui
il margine d’ineffabile, l’aura di mistero, sono precisamente l’essenziale
»
11
.
Questa precisazione riguardo al carattere non-simbolico o piuttosto pre-simbolico dell’im-
magine cinematografica, trova generalmente il consenso dei registi, che rigettano l’idea di
costruire delle opere a chiave
12
. Sarebbe però più corretto, ci sembra, non opporre l’immagi-
ne al simbolo, quanto evocare l’ambivalenza strutturale di quest’ultimo, così come ha fatto P.
Ricoeur nel suo saggio su Freud
13
. Inoltre va ricordata l’esistenza di una pluralità di simboli-
smi: funzionale, sociale, mitico-religioso. Parlare di una valenza simbolica dell’immagine
cinematografica, quindi, non significa necessariamente un richiamo a deduzioni logiche, pre-
cise e lapidarie. In questo modo si evita di creare una discontinuità rispetto alla comprensione
dell’uomo come essere simbolico, che resta fondamentale per l’antropologia religiosa e per la
fenomenologia del sacro.
[estratto da: Davide Zordan,
Filmare l’invisibile. Linguaggio cinematografico ed esperienze religiose
, in «Annali
di Studi Religiosi» 5/ 2004, pp. 129-173, qui pp. 133-136]
NOTE:
1. Cfr. F. FACCHINI,
Il simbolismo nell’uomo preistorico. Aspetti ermeneutici e manifestazioni
, in «Rivista di Scienze
Preistoriche» 49 (1998), 651-671; I
D
.,
Evoluzione umana e cultura
, Brescia 1999.
2. L’approccio fenomenologico-ermeneutico in paleoantropologia, ha permesso di riconoscere che il mondo simbolico non
ha inizio con la pratica della sepoltura e con l’arte. Tutta l’attività dell’uomo – le industrie, le forme di comunicazione, i rap-
porti con il territorio – si lega alla sua capacità astrattiva ed è carica di simboli, perché assume un valore in se stessa e riman-
da ad altro, all’immaginario dell’uomo, alla sua capacità creativa. In questo modo l’uomo arricchisce di significati le espres-
sioni della cultura e le riunisce in un universo di valori. Cfr. ad esempio J. P
IVETEAU
,
L’origine de l’homme
:
l’homme et son
2