L’OCCHIO, L’ORECCHIO E LA TV
(terza ed ultima parte)
di Vittorio Di Giacomo
Tornando alla specificità del discorso iniziale: il presupposto ne erano, in generale, la
lin-
gua
e il
linguaggio
dell’era tecnologica; in particolare la parola e l’immagine, se ed in quanto
entrano a fare parte di un modello di messaggio integrato, orientato in senso multimediale. In
esso l’elemento verbale di cui la sonorità alfabetica è fattore costitutivo, almeno quanto la
grammatica e la sintassi – e l’elemento visivo svolto in sequenze cinetiche irreversibili – rinun-
ciano ciascuno (per definizione) alla propria e intera autonomia funzionale, per comporsi in
una nuova, dialettica e possibilmente organica unità. Risorge tuttavia la domanda: quale paro-
la? Quale immagine? Giacché nel concreto la parola e l’immagine confluenti nell’audiovisivo
odierno sono condizionate già di per sé, nella forma e nel significato, da una variabile: cioè dal
contesto linguistico storico-culturale in cui hanno corso e di cui sono il sintomo.
Cominciamo dalla parola. È sotto gli occhi di tutti la contrazione del patrimonio lessicale
d’uso, autoridottosi in sacche marginali sottoalimentate, poste – sull’ esempio inglese – all’in-
segna del “basico”, che è già di per sé un ben povero modello. In realtà questo è il lessico del-
l’utile spicciolo, dell’ABC dell’economia, quasi una lingua di mera sopravvivenza : esperanto
dei poveri, piattamente denotativo. In quanto, invece, al fattore espressione, che del linguaggio
è il lievito: prescindo dai rari Maestri sopravvissuti ad una Storia che il neo-populismo accul-
turato e “borghese”, avverso alla classicità e ad ogni dignità letteraria, tenta di liquidare.
Prescindo dai Grandi della parola lirica (non per nulla definita dal Leopardi “sommità del
discorso umano”) qual è stato da noi Mario Luzi, uno per tutti. Che resta? Signoreggia
un’ostentata sciatteria formale, che non è solo noncuranza della forma compiuta (della forma-
valore o della forma-significato) ma difetto, si direbbe, di ogni elementare attitudine
formati-
va
, che è pur sempre l’attitudine primaria per uscire dal caos mentale, morale, emotivo.
Eliminati dal testo – da ogni testo – la prospettiva, lo scorcio, il chiaroscuro, la gradazione del
tono; cancellata ogni modulazione ritmica, ogni vivacità d’accento, ogni colore d’anima, si
direbbe che, paradossalmente, la nostra civiltà presa nel suo complesso abbia inteso espunge-
re dal discorso ogni connotazione positivamente mitica, fantastica, lirica.
E veniamo alla seconda componente dell’audiovisivo, l’immagine. Il discorso si fa com-
plesso, difficile da interpretare. Anche perché nel linguaggio iconico una rivoluzione è in atto
da ben due secoli, più antica degli esordi della moderna tecnologia. In primo piano vi stanno
oggi le “arti della visione”, così definite, intese in una loro funzione pilota, ma al tempo stes-
so come sintomo di un più vasto e
sotterraneo sommovimento dell’
immaginario figurativo collettivo.
Sommovimento, fattosi veicolo di
tutta una serie di fenomeni che
l’austriaco Hans Sedlmayr, autore-
vole storico dell’arte del
Novecento, deliberò di sottoporre
ad analisi approfondita traendone
elementi utili ad una diagnosi
complessiva, che compendiò in
una suggestiva nozione:
la perdita
del Centro
.
Da codesti, pur sommari cenni
sul contesto linguistico, letterario,
iconologico, non ho inteso pre-
scindere, per poter segnalare in modo non del tutto vago la problematicità della situazione in
generale. E il motivo è presto detto: poiché nessuno potrebbe chiederci di rinunciare a un’idea
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