CineArte on line 2007 - 213 - page 83

passé
, Paris 1962; trad. it.
La comparsa dell’uomo
, Milano 1993.
3. Una memoria materiale, dunque più fedele di quella degli uomini, e insieme più ricca delle immagini fisse, stampate o
scolpite, perché non conserva solo l’immagine esteriore, ma anche il movimento di ogni realtà del passato, che il tempo ha
portato con sé.
4. «Les Cahiers du Cinéma» 105 (1959), 35.
5. Cfr. A. B
AZIN
,
Qu’est-ce que le cinéma
?, 4 vol., Paris 1958-62 ; trad. it.
Che cosa è il cinema?
Trad. it. e selezione dei testi
A. A
PRÀ
, Milano 1999. Come avremo modo di ricordare anche in seguito, il punto di partenza di Bazin è il potere mimetico
della fotografia più che il suo linguaggio. In questa prospettiva, egli individua il principio che guida il cinema nel suo reali-
smo ontologico: il cinema non solo rappresenta la realtà, ma partecipa della realtà. Il mistero dell’essere è co-presente nell’im-
magine filmica. L’approccio teorico del critico francese sembra annunciare sorprendentemente le posizioni di H.G. Gadamer,
che parlerà dell’immagine come fatto ontologico, il quale non si può adeguatamente comprendere in relazione alla sola sog-
gettività estetica. L’immagine è, per Gadamer, un evento in cui l’essere si dà una manifestazione dotata di senso, in cui si rea-
lizza dunque una crescita nell’essere. Tuttavia, afferma il filosofo, «
solo l’immagine religiosa può evidenziare tutta la porta-
ta ontologica dell’immagine. E’ dalla manifestazione divina che davvero si può dire che essa acquista il suo carattere di imma-
gine proprio attraverso la parola e la figura. Il significato religioso dell’immagine si rivela dunque esemplare. In essa risul-
ta inequivocabilmente chiaro che l’immagine non è copia di un essere raffigurato, ma ha una comunione ontologica con il raf-
figurato.
» (Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tubingen 1960; trad. it. Verità e metodo,
Milano 1983, 177).
6. R. B
RESSON
ebbe a dire a questo proposito: «
Bisogna arrivare a mettere le idee in un film senza mettercele, cioè bisogna
che queste idee non vi siano in partenza, ma vi si trovino alla fine
» (conferenza stampa a Cannes, 14 maggio 1957, citato in:
P. L
HERMINIER
,
L’art du cinéma
, Paris 1960, 111). All’opposto di questa visione c’è la teoria di Eisenstein. Per lui il linguag-
gio cinematografico è dialettica, e il montaggio viene utilizzato per sostenere una tesi definita e prefissata. In questo modo il
film può riflettere certo il genio del regista, ma è costruito in base ad una intenzione estrinseca. Per Bresson, al contrario, il
film è uno specchio che deve riflette l’anima dell’autore e la sua testimonianza poetica, le quali si manifestano attraverso
modalità espressive proprie del cinema. Ma è vero che due attitudini così apparentemente opposte possono fondersi nell’ispi-
razione personale di un grande cineasta; basti pensare a certi film di Buñuel, o perfino di Almodovar, che sono nel contempo
un pamphlet provocatorio e un canto struggente.
7. Pensiamo a un esempio molto frequente: in un film, il pensiero espresso direttamente dalle parole o dai comportamenti di
un personaggio può essere, per se stesso, perfettamente edificante. Ma se l’autore li riprende sotto una certa luce, secondo un
certo angolo di visuale, se li monta secondo un certo ritmo insieme con immagini di altro genere, essi potranno diventare,
secondo la volontà dell’autore, ridicoli e sacrileghi, o semplicemente inconsistenti e vuoti.
8. Cfr.
Métaphysique du cinéma
, Paris 1976.
9 . H. A
GEL
,
Le cinéma
, Tournai 1954.
10.
Ibid.
11.
Ibid.
12. «C’è un’espressione che è ormai diventata banale: “cinema poetico”. Con essa si indica un cinema che nelle sue immagi-
ni si discosta audacemente da quella concretezza fattuale che la vita reale ci presenta e che, nello stesso tempo, afferma la pro-
pria coerenza strutturale. Sono pochi, tuttavia, coloro che si rendono conto che in ciò si cela un pericolo: il pericolo che il cine-
ma si allontani da se stesso. Il “cinema poetico”, di regola, genera simboli, allegorie e altri tropi di questo genere, ossia pro-
prio ciò che non ha nulla a che vedere con quella figuratività che è naturalmente propria del cinema » A. T
ARKOVSKIJ
,
Scolpire
il tempo
, Milano 1988.
13. Ciò che rende il simbolo ambiguo e equivoco è precisamente la possibilità di portare e generare delle interpretazioni con-
trastanti ma ciascuna coerente in se stessa. Cfr.
De l’interprétation, essai sur Freud
, Paris 1968; trad. it.
Dell’interpretazione.
Saggio su Freud,
Genova 1991.
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