gono, sullo schermo, forme e colori, pittura e scultura.
È altresì vero che, allo stesso modo che la ripresa cinematografica può accendere l’immagine pitto-
rica o plastica di una vita più intensa e febbrile, può spegnerla del tutto e renderla quasi illeggibile.
Supponiamo un documentario che si proponga davvero di «documentare» oggettivamente, una ripre-
sa inerte e impartecipe, una piatta successione d’ingrandimenti fotografici: avremo insieme un pes-
simo film e una scadente documentazione. È dunque chiaro che la innaturale, sorprendente vivezza
che l’immagine dipinta o scolpita acquista sullo schermo
non è evidenza di particolari ma di valo-
ri, e precisamente di valori plastici o pittoric
i; e che quella vivezza dipende esclusivamente dal
ritmo della ripresa, dalla successione dei fotogrammi, dalla durata e dal taglio delle inquadrature, dal
mutare continuo del grado d’ingrandimento, dai «pianissimi» e «fortissimi» della visione, dalla capa-
cità dell’obbiettivo di frugare nel tessuto vivo dell’opera, rintracciandone i rapporti segreti e le con-
sonanze più interne, seguendo e ricollegando temi e momenti formali, ritessendola filo per filo ed
infine fornendone una «esecuzione» o un’interpretazione completa, veramente orchestrale.
(continua al prossimo numero)
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Si richiama l’attenzione di chi legge sul fatto che il testo di Argan sopra riprodotto, pur mantenendo integra la sua attua-
lità, risale all’anno 1950
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